[Desclaimer. Sto facendo molta fatica a scrivere. Sarà il caldo, sarà la stanchezza accumulata, saranno questioni personali, sarà l’inerzia individuale in un contesto collettivo ancor più confuso del solito. Questo che segue è un tentativo di mettere in fila pensieri tra nazionale, sport, catarsi, inginocchiarsi, colonialismo, egemonia e subalternità, senza troppe pressioni e senza particolari obiettivi, nella speranza di ritrovare concentrazione e riscoprirmi capace di esprimermi e argomentare. Lascerò fluire il discorso, partirò da lontano, come a scaldarmi prima di arrivare al punto, sciogliere le dita, srotolare il filo logico. Se il lettore è pigro o ha fretta può saltare i paragrafi, l’algoritmo per l’ottimizzazione grafica mi consiglierà di dividerli in piccole sezioni con brevi titoli, per invogliare a leggere: wordpress ti ritiene ancor più distratto di me, caro lettore. Puoi dimostrare all’intelligenza artificiale o agli esperti di web content editing che hanno torto iniziando a leggere dal principio e proseguendo anche quando noterai il dilungarsi del mio discorso. Capita, scusa.]
Conosco l’inno di Mameli, il Canto degli italiani. Tutto. Comprese le strofe dopo la prima (Noi siamo da secoli calpesti e derisi perché non siam Popolo, perché siam divisi...). Quando parte prima di una partita o alla premiazione per una medaglia mi alzo in piedi, per rispetto, e non lo canto solo per imbarazzo. Da piccola lo intonavo, senza vergogna. Ora mi vergogno di cantare, ma vale per l’Inno di Mameli come per il karaoke.
Sono italiana anche se la mia patria è il mondo intero (nostra legge è la libertà ed un pensiero ribelle in cor ci sta!). Credo nei diritti (umani, civili, sociali), che sono diritti se sono per tutti, eppure mi sento in un certo senso patriottica, patriottica e non nazionalista, perché se “Il patriottismo è amare la propria gente; il nazionalismo è odiare gli altri”, credo di potermi definire tale senza timore di risultare sovranista, di sventolare il tricolore come fanno i fascisti o i loro nipoti più vergognosi.
Mio nonno, italiano, emigrante
Nel periodo della crescita economica, mio nonno assaporava l’idea di acquistare tre cinquecento. Non le comprò mai, in realtà, ci furono sempre altre priorità, ma appena emigrato in Lombardia diceva che un giorno le avrebbe comprate, quelle tre auto, di tre colori, una verde, una bianca e una rossa. Durante la seconda guerra mondiale fu spedito in nave in Africa e dopo non molto fu fatto prigioniero dagli inglesi, rimase a trenta chilometri dal canale di Suèz, diceva, con l’accento sulla e. Prigioniero di guerra lavorò nei campi britannici come infermiere, e dai suoi racconti io mica avevo capito che Italia e Inghilterra fossero schieramenti nemici (avevo sei o sette anni, la geopolitica bellica era materia a me sconosciuta), ma pure quando lo scoprii il fatto che mio nonno fosse al servizio di feriti e malati, senza particolare attenzione per la loro nazionalità, mi pareva un fatto normale. Vent’anni dopo era in Germania, ad Hagen, a lavorare in fonderia, lontano dalla famiglia rimasta in Puglia. Quando finalmente lui e mia nonna decisero di riunire il focolare, il maister tedesco gli propose di portare con sé la moglie, i figli, ci avrebbe pensato l’azienda a iscriverli a scuola, a procurare un lavoretto anche alla moglie, se il problema era quello. Ma nonno no. Voleva tornare in Italia, voleva che il sangue del suo sangue parlasse italiano, si sentisse italiano, con o senza cinquecento tricolore.
Non si doveva parlare di Italia-Belgio?
Ora, che c’entrano mio nonno, il canale di Suez, la Germania, le auto cromaticamente patriottiche con la Nazionale di calcio agli Europei? Niente. Sul serio, niente. È solo il mio modo di prendere la rincorsa dialettica, ti avevo avvisato prima di iniziare che ci sarebbe stato questo rischio. Il punto è che ritrovo nella storia di mio nonno la storia di molti, moltissimi italiani. Lui andò ad Hagen perché l’aveva chiamato compare Domenico, altri se ne andarono in Belgio, perché lì avevano un cugino, un fratello, un compare, e i flussi migratori erano regolati dal protocollo tra le due nazioni: carbone per forza lavoro. E se mio nonno stava in fonderia, altri scendevano in miniera, come quei 136 italiani che, insieme a molti altri con diversa cittadinanza, morirono l’8 agosto 1956, a Marcinelle, Belgio. Ma ora è il caso che mi impegni per non confondere troppo i piani e non risultare irrispettosa, per le vittime di emigrazione, di lavoro, di razzismo.
Un paio di premesse ancora
Prima premessa: la posizione della nazionale italiana sul gesto di adesione alla campagna antirazzista a sostegno del movimento Black lives matter è ridicola. Ogni aggiornamento alla questione pare quasi un tutorial su come non gestire la comunicazione. Qui ne è stato scritto, meglio di come potrei fare io. Stasera, prima della partita contro il Belgio, gli azzurri dovrebbero inginocchiarsi, per rispetto agli avversari, alla nazionale belga, i cui calciatori hanno sempre tributato il gesto antirazzista, durante questo torneo.
Seconda premessa: la dittatura del politicamente corretto non esiste. Esistono i pink washing, i rainbow washing, i green washing, immagino pure i black washing, sono tattiche per la conservazione dei soliti paradigmi di dominio con cui la classe egemone si tinge di subalternità per convenienza. Ma essere civili, oggi come ieri, è essere antifascisti e impegnarsi nella costruzione attiva di una società, di una comunità non escludente, in cui siano valorizzate le differenze senza che esse diventino disuguaglianze. Dirsi antifascisti (o antirazzisti, femministi, ambientalisti…) e usare simboli e parole corretti e inclusivi non basta, ma serve.
Simboli di potere e potere dei simboli (semicit.)
Fine delle premesse, inizio del ragionamento. I simboli hanno un potere e hanno un contesto, talora hanno una didascalia che rischia di depotenziarli (ma forse è meglio spiegare riducendo la carica ideale che lasciar spazio a equivoci). Non c’entra l’assassinio di George Floyd, non c’entra nemmeno del tutto Black lives matter, se non come movimento in grado di amplificare, quando non indirizzare, la rivolta: il gesto di inginocchiarsi nasce nel mondo sportivo e proviene da una singola persona, un giocatore di football, Colin Kaepernick, che non volle alzarsi in piedi durante l’inno degli Stati Uniti, perché non voleva tributare onori a una patria che si mostrava patrigna per molti, moltissimi individui. Come per molti altri prima di lui, come Tommie Smith e John Carlos, come Peter Norman, anche per Kaepernick lo schieramento ideale e politico, specie in quanto gestuale, inaspettato e caparbio, ha comportato il sacrificio della carriera, ma ha dato origine a un simbolo che, come spesso accade, s’è diffuso e, adesso, pare aver perso la sua originaria funzione.
RESPECT: sembra Aretha Franklin, ma è la Uefa
Cambio di ambientazione, siamo in Europa, allo stadio, su un campo di calcio. Le magliette, le fasce da capitano, i gadget hanno una parola stampata sopra, con un logo: RESPECT. Fino a un minuto prima di scrivere ero convinta si trattasse di un motto contro il razzismo, in realtà è anche l’impegno per il rispetto dei compagni, degli avversari, degli arbitri, dei tifosi e dello sport. È un simbolo scelto dalla Uefa, che organizza tornei e competizioni, è la manifestazione di un concetto pre-politico, visto anche che le manifestazioni ideologiche sono vietate nelle competizioni sportive (divieto che, in teoria, dovrebbe tutelare gli atleti da imposizioni di Stati dittatoriali, mentre più spesso rappresenta un freno a ogni espressione d’opinione da parte dei singoli).
Ora, prendiamo il gesto di Colin Kaepernick, di protesta contro la patria patrigna.
Il gesto si diffonde tra gli atleti negli Stati Uniti, diventa un simbolo a sostegno del movimento Black lives matter, una rivendicazione di esistenza, un’opinione attiva, una presa di posizione potente e contestuale, in una realtà nazionale che ha superato per legge la segregazione razziale ma che socio-economicamente, e nel trattamento con la pubblica autorità, resta il prodotto di una società schiavista.
Passano quattro anni dallo schieramento militante di Kaepernick, si giocano gli europei e i calciatori s’inginocchiano. E ora il simbolo che cosa rappresenta? Un gesto contro il razzismo, una presa di posizione generica, che nemmeno si pone al momento degli inni, nemmeno rappresenta un atto d’accusa alle proprie nazioni che non fanno abbastanza per garantire dignità e uguaglianza, a prescindere da etnie e confini.
Chi si spaventa forse non ha capito (altra semicit.)
Non è che in Europa non ci sia un problema di razzismo. C’è. Non è che non sia giusto tributare sostegno a un movimento d’oltreoceano. Può esser giusto. Ma un simbolo quand’è generico perde potere, permette lo schieramento formale, non illimpidisce l’azione, non approfondisce l’impegno e, anzi, finisce per occupare formalmente spazi che potrebbero essere di militanza effettiva. E invece, per esser potente, un simbolo deve poter diventare icona conservando il suo significato più profondo, ed essere dirompente, rivoluzionario.
Chi si spaventa quando sente dire “rivoluzione” forse non ha capito, poetava Danilo Dolci. È rivoluzione distruggere catene, rinnovare e rovesciare, cambiare i rapporti di forza, valorizzare le forme di potere.
Quando ci si agita per giungere
al potere e non si arriva
non è rivoluzione, si è mancata;
se si giunge al potere e la sostanza
dei rapporti rimane come prima,
rivoluzione tradita.
Questo non significa che la difesa degli oppressi spetti solo agli oppressi, che la protesta contro il sopruso sia esclusiva di chi lo subisce. Primo, perché anche l’azione solidale del privilegiato può avere senso ed efficacia: la stessa lotta contro la segregazione razziale negli Stati Uniti ha dimostrato la necessità di alleati, da Bob Kennedy a Jim Zwerg. Da privilegiati, insomma, si può decidere se essere d’aiuto alla causa, facendo leva proprio sul proprio privilegio, aderendo ai boicottaggi, diventando freedom riders, o sfruttare il privilegio per dimostrarsi gli aguzzini di sempre.
Secondo. Il fatto che un simbolo non basti alla lotta, che un gesto non sia sufficiente contro il razzismo, non esclude l’opportunità di metterlo comunque in atto. Ma questo l’avevo già spiegato in premessa.
Chi ha un passato coloniale alzi la mano (o pieghi il ginocchio)
Torniamo all’Italia, torniamo al Belgio, torniamo alla nazionale e pure al patriottismo di mio nonno emigrante. I giocatori del Belgio sono stati tra i primi a inginocchiarsi, compattamente, Lukaku alza pure il pugno, merita il plauso per la capacità di schierarsi. Suo padre giocava nella nazionale dello Zaire, ora Repubblica democratica del Congo, dal 1908 al 1960 colonia del Belgio. Anche i calciatori della nazionale francese si sono inginocchiati, anche gli inglesi, entrambe queste nazioni s’erano costruite un impero, delle zone di dominio, delle colonie da cui attingere ricchezze ieri, calciatori e lavoratori oggi.
Pure l’Italia giocò all’Impero, con Mussolini e pure prima, quando in teoria s’era liberali, e invece in pratica sempre guerra sporca per depredare territori altrui si faceva. Ma gli italiani son diversi dai belgi, dai francesi, dagli inglesi e non perché “italiani brava gente”, perché di brava gente ce n’era e ce n’è in ogni nazione e perché, sul fronte coloniale, nessuno è mai stato “brava gente”, italiani compresi. Gli italiani son diversi, siamo diversi, perché più d’altri si è confusi tra il ruolo egemone e subalterno, e il dramma è il non riuscire a capirlo.
La cultura egemone opprime gli oppressi che la decantano
Anche per questo è grave l’atteggiamento della FIGC, di Bonucci, di Chiellini, di molti, troppi, commentatori sportivi e politici. Non perché sia razzista: potrebbe non esserlo. Non perché sia ignavo, pavido, superficiale. Ma perché è privo di consapevolezza non solo sul valore simbolico del gesto, ma anche (ed è questa la questione più grave) sul contesto sociale in cui si vive e perfino sulla propria identità nazionale. Perché la nostra identità è proprio quella della seconda, sconosciuta, strofa dell’Inno di Mameli: noi fummo per secoli calpesti e derisi. Non siamo il Belgio, dalla parte giusta della storia, intesa oggi come parte giustamente antirazzista ma intesa in altri campi e in altre epoche come la parte dominante, con la missione civilizzatrice che finisce per depredare le società d’approdo, attraverso l’egemonia culturale. E invece noi, gli italiani, invece di giocare il ruolo che spesso ci riesce bene, quello delle vittime, e che stranamente stavolta potremmo vestire senza distorcere troppo la storia, ricordando che i linciaggi negli Stati Uniti riguardavano anche gli immigrati italiani, commemorando lo sfruttamento dei tanti che andarono lontano da casa per procurare il pane alla famiglia, arricchendo le nazioni d’approdo più che quella di partenza, riusciamo a metterci tra gli indifferenti che però, nel dubbio, si schierano nella fazione degli oppressori.
La cultura nazionalpopolare non può essere un’esclusiva di (estrema) destra
Ci sarebbe bisogno, però, d’esser più empatici verso i subalterni, anche quando i subalterni siamo noi. Senza giustificare, ma tentando di comprendere: ad esempio, c’è bisogno di riscoprire nello sport e nel tifo un elemento culturale che prescinde dall’adesione a campagne antirazziste o contro la violenza sulle donne (campagne che peraltro non mancano d’ipocrisia), c’è bisogno di capire che la cultura nazionalpopolare è sia cultura, sia popolare, e merita attenzione, analisi, rispetto. Mi torna in mente, pur su temi estremamente più seri, un articolo di Giuseppe Di Vittorio, sindacalista, antifascista. Su La Voce degli Italiani, il 20 ottobre 1937, rispose a un lettore che criticava il giornale per aver interloquito, nei giorni precedenti, con un operaio fascista nella rubrica delle lettere.
[…] Ma, diciamocelo francamente: nel fatto che anche in Francia vi siano ancora dei lavoratori fascisti, c’è certamente una responsabilità nostra, degli antifascisti, che consiste appunto nel guardare dall’alto in basso i lavoratori fascisti, nel considerarli senz’altro come dei “nemici“, nel pretendere da loro che divengano di punto in bianco degli antifascisti.È questo settarismo che tiene i lavoratori fascisti lontani dai lavoratori più avanzati e li inchioda all’influenza dei consolati fascisti. È questo settarismo che dobbiamo liquidare, guardandoci bene dal confondere degli onesti lavoratori italiani influenzati dal fascismo con degli agenti del governo fascista, contro i quali invece dobbiamo rafforzare la nostra lotta.È giusto che fra i lavoratori italiani influenzati o inquadrati dal fascismo nell’emigrazione, noi dobbiamo condurre un lavoro di propaganda perché diventino antifascisti. Ma questo lavoro non ci permetterebbe di realizzare l’unione del popolo italiano – condizione assoluta della nostra vittoria – se non fosse accompagnato da un lavoro molto più ampio.Ridurre la questione a una disputa astratta, consistente nel pretendere aprioristicamente dai lavoratori fascisti di divenire antifascisti, o dai cattolici di divenire atei, e così via, significherebbe prestarsi a perpetuare la divisione del popolo. La questione va posta concretamente, su tutt’altro terreno.Che cosa vogliono i lavoratori, antifascisti e fascisti, cattolici e atei? Essi vogliono tutti migliori condizioni di vita; essi vogliono tutti vivere in pace, e perciò detestano la guerra; essi vogliono – tutti – essere liberi, vivere in libertà; essi vogliono – tutti – il benessere. È su queste basi, dunque; è nella lotta quotidiana per raggiungere questi obiettivi comuni, che dobbiamo realizzare l’unione del popolo italiano, in patria e nell’emigrazione, tendendo lealmente la mano a tutti i lavoratori, senza porre loro alcuna condizione aprioristica.È soprattutto nel corso della lotta comune, per realizzare degli obiettivi comuni, che i lavoratori fascisti constateranno direttamente da quale parte si schierano i nemici del popolo, che essi considereranno, allora, come propri nemici. […]
Meglio il calcio della guerra (Captain Obvious strikes again)
Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.
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