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Perché l’individualismo non funziona per garantire il diritto alla salute (deconstructing green pass)

Invidio un po’ le certezze su covid, vaccini e green pass. Per sicurezza, continuo a mantenere al massimo le cautele, la mia vita sociale si esprime soprattutto all’aperto e mi sono vaccinata appena ho potuto. Non penso di poter aver imparato in una manciata di mesi nozioni di biologia, virologia ed epidemiologia che normalmente si studiano in media per diversi anni, mentre qualcosa su diritti e libertà dovrei ormai saperlo, anche se continuo a sapere di non sapere e credo in fondo sia questo che mi impedisce di tifare troppo per una soluzione o per l’altra.

Sul green pass: le fonti normative, i limiti d’uso

Sul green pass, o certificazione verde, ad esempio. La definizione di questo documento è individuata all’articolo 9 del decreto legge 52 del 2021, convertito con modificazioni dalla L. 17 giugno 2021, n. 87.

Il dibattito parlamentare ha integrato il testo governativo, peraltro individuando i limiti all’uso della certificazione verde. È infatti il comma 10-bis all’articolo 9, introdotto in fase di conversione parlamentare, a individuare gli unici campi in cui può essere utilizzato il green pass, ossia:

  • spostamenti da zone arancioni e rosse (art. 2 co.1);
  • accessi in strutture sanitarie per accompagnatori di pazienti non-covid (art. 2-bis co.1);
  • uscite temporanee da strutture residenziali sanitarie o socio-assistenziali (art. 2-quater);
  • spettacoli aperti al pubblico ed eventi sportivi (art. 5 co. 4);
  • fiere, convegni, congressi (art. 7 co. 2);
  • feste conseguenti a cerimonie civili o religiose (art. 8-bis, co. 2).

Tutto il resto è disciplinato da decreti ministeriali e decreti del presidente del consiglio (DPCM, dunque).

Piccola nota polemica su dipiciemme liberticidi a governi alterni

Mario Draghi agisce tramite Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, DPCM appunto. Esattamente come Conte, cui tuttavia erano indirizzate accuse di accentramento di potere e spregio istituzionale antiparlamentare.

La scelta di tecnica normativa non è un problema, in sé: non lo è con il governo Draghi come non lo era con il governo Conte. Primo, perché i DPCM, come i decreti ministeriali, sono atti che specificano nel dettaglio norme le cui cornici sono state già individuate da leggi varate dal Parlamento (o, comunque, da esso approvate). Di DPCM è pieno l’ordinamento, anche se prima della pandemia lo sapevano in pochi. Secondo, perché sono anni che si governa e si legifera con la scusa dell’emergenza e, in questo caso, almeno rispetto alle restrizioni direttamente legate al contagio, si agisce di fronte a un’effettiva emergenza, anche solo nel senso etimologico del termine: la disciplina viene graduata a seconda dei dati di contagio e saturazione sanitaria che emergono.

In questo caso, però, c’è una differenza piuttosto profonda tra la tecnica normativa di Conte e il D.L. 52/2021 varato dal governo Draghi. I DPCM varati dal precedente esecutivo si limitavano a graduare le restrizioni entro un massimo previsto dalla legge, ossia già fissato in un decreto legge governativo poi convertito in legge dal Parlamento (peraltro senza particolari obiezioni o modifiche). In questo caso, invece, il testo governativo immediatamente vigente in attesa della conversione non fissava limiti al valore della certificazione verde, provvedendo solo alla sua definizione e all’individuazione dei termini temporali. Nel testo originale del decreto varato dal governo Draghi mancava dunque l’ipotesi normativa sull’uso (e sul limite all’uso) della certificazione verde, aggiunta solo con la conversione parlamentare (attraverso l’introduzione del comma 10-bis all’articolo 9).

Strano non aver trovato Matteo Renzi a lamentarsi di tale vulnus democratico.

Le opinioni si basano sui fatti, al più sulle ipotesi

Ma lasciamo da parte la polemica politica e torniamo alla certificazione verde. Già qui, limitandosi ai fatti, si potrebbe lasciare da parte tutto il dibattito sull’accesso alle scuole solo ai vaccinati o sul green pass per categorie di lavoratori o sull’accesso ad altri luoghi sede di esercizio di diritti costituzionalmente garantiti.

Il tema è ampiamente dibattuto, ma sui fondamenti piuttosto pacifico: la vaccinazione è un trattamento sanitario e, in quanto tale, può essere imposto solo per legge. L’articolo 32 della Costituzione sul punto è chiarissimo, e tanto dovrebbe bastare per ogni invocazione di punizione, dal licenziamento alla gogna, legata a un vaccino che non è (ancora) prescritto per legge. Quando (e se) la legge prevederà obblighi, se ne riparlerà. Fino ad allora vaccinarsi è senso civico e intelligenza sociale.

Il mio vaccino, la mia mancata protesta

Il ragionamento che mi appresto a svolgere riguarda diritti, libertà e uno slittamento politico in atto ormai da anni. C’è però una questione di fondo da sottolineare che riguarda l’approccio di ciascuno, egoistico e altruistico, rispetto alla vaccinazione.

Mi sono vaccinata appena ho potuto, anche prima di quanto politicamente mi sarebbe parso giusto. In quanto dottoranda, infatti, rientravo nelle categorie vaccinabili con Astrazeneca che, all’epoca, era inibito agli over-65 per carenza di studi su quella fascia di età. Ho a lungo ragionato sull’eventualità di rifiutare l’inoculazione prioritaria per ragioni politiche, ma ho infine desistito e sono andata a farmi vaccinare, perché mancavano strumenti efficaci ed efficienti per avanzare un reclamo sulle scelte del piano vaccinale e perché, almeno in teoria, all’epoca, a fragili e anziani veniva somministrato il vaccino a mRNA. E, ovviamente, mi sono vaccinata per convenienza personale.

Raro caso in cui la teoria della mano invisibile di Adam Smith funziona

Vaccinarsi è innanzitutto egoistico spirito di sopravvivenza. Confido, in base alle rassicurazioni della divulgazione medica (non quella per esperti, quella per noi analfabeti clinici), che il vaccino mi protegga almeno dagli effetti più gravi dell’infezione in caso di contagio.

Il vaccino potrebbe avere effetti collaterali a lungo termine? Al momento non sono noti e, ovviamente, non possono essere esclusi. Viceversa, gli effetti collaterali a lungo termine del covid sono già in parte noti e particolarmente inquietanti: tra un rischio a lungo termine non escludibile a fronte di una protezione immediata e un rischio probabile senza protezione mi pare più logico scegliere il primo.

Vaccinarsi è poi un atto altruistico, anche se la percentuale di altruismo è variabile e non ancora nota, perché dipende da quanto i vaccini limitino replicazione del virus e possibilità di contagiare. Le percentuali più basse che ho intravisto sono del 51%, le più alte arrivavano all’85%, in ogni caso migliori del rischio di contagiare senza alcun tipo di vaccino.

Se questa possibilità di riduzione del contagio fosse confermata, l’altruismo smetterebbe di essere vago, prendendo il volto di coloro che, per ragioni cliniche, non possono vaccinarsi. Ne conosco una: “almeno potessi vaccinarmi”, confida. Le è nato un nipotino qualche mese fa e l’ha visto solo in foto, perché è in cura, è debole, è un rischio per lei tanto il vaccino quanto il covid perché il suo organismo sta affrontando questioni molto serie. Se tutti fossimo vaccinati, lei comunque vivrebbe il suo incubo, ma con un briciolo di serenità in più.

Quindi tu, amico non vaccinato senza condizioni che sconsiglino il vaccino, pensa a te stesso e, per una volta, l’egoismo di proteggere te stesso potrebbe finire per proteggere anche gli altri. Credo sia l’unico caso in cui l’individualista mano invisibile teorizzata da Adam Smith sia effettivamente utile a uno come a tutti.

Fine parentesi di logica sociale, torniamo al green pass.

Il modello Macron e la dittatura sanitaria senz’obblighi

In Italia i fatti, per ora, sono pochi. C’è una definizione normativa della certificazione verde, la sua previsione d’uso nell’ambito dei regolamenti dell’Unione europea, l’individuazione di limiti di materia per l’eventuale utilizzo sul territorio nazionale. Se però si vuole ragionare per ipotesi, consapevoli che di ipotesi si tratta, è il caso di osservare la proposta Macron, che amplia l’uso del green pass a gran parte delle occasioni sociali, comprendendo anche l’accesso a locali commerciali e mezzi pubblici. La misura, da un lato, ha portato a un aumento di prenotazioni per i vaccini, dall’altro a proteste di piazza contro la cosiddetta dittatura sanitaria.

L’elemento ridicolo di questa espressione, dittatura sanitaria, è l’equivoco su cui si fonda uno slittamento politico in atto da anni e che i ribelli della disobbedienza (in)civile ignorano. Una dittatura, per definizione, prevede un accentramento degli strumenti di dominio nell’esercizio di un’autorità politica. Nel caso del green pass francese, e nelle ipotesi di emulazione altrove, l’autorità politica è invece tuttalpiù testimonial di un’azione che abdica all’autorità politica stessa.

Autorità, autorevolezza, autoritarismo

Una politica autoritaria imporrebbe l’obbligo vaccinale, con la somministrazione coatta o con punizioni in caso di disobbedienza. Viceversa, la soluzione di un green pass come chiave d’accesso a servizi (e diritti) rispecchia una visione individualistica e privatistica di potere.

C’è infatti un tendenziale spostamento dalla categoria dell’obbligo a quella del corrispettivo. L’obbligo, di per sé, non è un atto autoritario: anche lo Stato più democratico prevede obblighi e doveri per i suoi cittadini, cui corrisponde tuttavia un impegno dell’autorità politica a garantire il corretto svolgimento delle attività e il normale esercizio dei diritti individuali e collettivi. Si toglie al cittadino la facoltà di scegliere su una determinata questione, con la previsione di un obbligo, adempiuto il quale però il cittadino è libero di procedere con la sua vita privata. Non c’è altro, sul punto, che l’autorità debba pretendere.

La previsione di un obbligo presuppone però che lo Stato abbia autorità e autorevolezza. Il meccanismo di funzionamento di diritti e doveri è estremamente complesso e comprende l’equilibrio tra i bisogni della collettività e le libertà dei singoli, la collaborazione di ciascuno e la consapevolezza di non essere abbandonati. Ci sono elementi di profonda responsabilità nelle azioni di ogni attore del consesso civile e il cittadino che partecipa all’impegno collettivo sa di avere dei diritti, tra cui il diritto di trovare assistenza per i propri bisogni. Per garantire questo complesso funzionamento di diritti individuali e collettivi, finora è servito lo Stato nazionale. Il problema è quanto questa entità politica va in crisi.

Il tramonto dello Stato nazione e la tensione tra diritti sociali e libertà economiche

Il tramonto dello Stato nazione è un evento storico che periodicamente ricorre. Per dire, Hannah Arendt ne parlava nel suo Le origini del totalitarismo, relativamente alla dissoluzione, all’indomani della Prima guerra mondiale, dell’impero asburgico come di quello ottomano. Senza uno Stato a cui appartenere, il cittadino diventa apolide, perde la fonte del diritto e, con essa, l’attuazione dei suoi diritti: “la privazione dei diritti umani – sostiene Arendt – si manifesta soprattutto nella mancanza di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto“. Il tramonto dello Stato, nell’esempio post-bellico, è l’effettivo venir meno di una realtà politica nazionale, con la sostituzione della stessa con altri enti, sempre nazionali, ma privi della potestà territoriale e del dominio internazionale precedentemente vantati.

Decenni dopo, il concetto di tramonto dello Stato nazione è tornato in auge, non più però per questioni belliche, quanto, paradossalmente, attraverso la creazione di (o l’attribuzione di poteri a) enti sovranazionali aventi il fine di garantire diritti (o di proporre una politica economica comune) o di realtà territoriali intenzionate a garantire una migliore amministrazione locale.

Il risultato è quella che Massimo D’Antona definiva una disarticolazione dello Stato nazionale, avente impatto sui diritti sociali.

Le Costituzioni europee sono il punto di sutura, e quindi di tensione, di un processo di disarticolazione dello Stato nazionale, verso l’alto, ossia verso l’Unione [Europea], e verso il basso, ossia verso i governi territoriali. Questa disarticolazione riguarda sia il ruolo economico sia l’autorità normativa dello Stato, due funzioni cruciali nella prospettiva dei diritti sociali, la cui protezione richiede tipicamente un’azione dello Stato sia di tipo economico (prestazioni e intervento pubblico nell’economia) sia di tipo normativo (ascrizione di diritti e obblighi nei rapporti interprivati).

D’Antona proseguiva poi notando come la tensione costituzionale riguardi anche i valori, con i principi costitutivi comunitari focalizzati sul mercato e quelli nazionali, tipici delle costituzioni antifasciste e socialdemocratiche, che pongono invece al centro i diritti sociali, che “non sono postergati alle libertà economiche.

Dalla politica all’economia: globalizzazione, rivoluzione digitale, cittadino-consumatore

Da quelle analisi sono passati più di vent’anni, come vent’anni sono passati dai giorni di Genova, di protesta contro un modello di capitalismo e globalizzazione insostenibile, per gli umani e per l’ambiente, quei giorni in cui la moltitudine aveva ragione. Ma è sempre un problema avere ragione quando i potenti hanno torto.

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Su quel tipo di mercato globale s’è innestata la rivoluzione digitale, in potenza portatrice di accesso al benessere e di elaborazione di nuovi diritti e nuovi paradigmi, nei fatti randello economico contro il traballante welfare dello Stato nazionale, già spesso incapace di redistribuire la ricchezza prodotta e posseduta dai propri cittadini e certo sfornito di strumenti per tassare multinazionali e colossi digitali.

Il risultato da economico diventa sociale, politico, e viceversa. Si modifica il concetto stesso di cittadino, si propone un’idea fallace di democrazia, quella dell’accessibilità illimitata, della disponibilità di beni e servizi in qualunque luogo e in qualunque momento, con la conseguente compressione dei diritti dei lavoratori impiegati in certi settori (logistica, commercio…), con il lucro di pochissimi e con la scusa di rispondere ai bisogni di altri, tutelati non in quanto cittadini, né in quanto persone, né in quanto lavoratori. In quanto consumatori, tanto illusi d’esser liberi quanto lontani dalla libertà.

L’età adulta: l’equilibrio tra libertà e responsabilità

Il collegamento biunivoco tra libertà e responsabilità mi è stato chiaro abbastanza presto, anche se pensavo (o forse mi illudevo) che fosse una caratteristica naturale degli adulti. Il timore per la prospettiva si calmava nella convinzione che, a un certo punto, sarebbe scattata una sorta di molla, se non ai diciott’anni verso i venti: si diventa grandi, liberi e disinvolti di fronte alla realtà, pronti ad assumersi responsabilità, in grado di prendere decisioni.

Il rapporto del cittadino con lo Stato è un rapporto tra adulti. Certo, anche i bambini sono cittadini, ma proprio la poca libertà e la poca responsabilità che possono essere loro attribuite li rende tendenzialmente portatori di diritti, non di doveri. Nel rapporto dei cittadini adulti con lo Stato c’è invece un complesso equilibrio di doveri e di diritti, di fiducia reciproca e impegno gratuito.

La pandemia ha reso evidente un dato già chiaro da tempo: la maggior parte degli adulti non si comporta in maniera adulta. O, meglio, non si comporta secondo il modello di adulto che avevo individuato da piccola, cioè una persona tendenzialmente libera e, in quanto tale, pienamente consapevole delle sue responsabilità e dunque pronta ad assumersi le conseguenze delle azioni compiute in libertà.

L’homo customer, ad esempio, non è troppo diverso da un bambino viziato, ovviamente inconsapevole d’esser figlio di genitori inadeguati, che agisce incurante dei danni delle sue pretese commerciali, perfettamente in linea con l’egemonia culturale dei colossi economici.

Lo stesso si può dire di molti cittadini di fronte alle restrizioni anti-covid. Al netto delle legittime critiche alle scelte politiche e della normale insofferenza per una situazione tragica e incontrollabile, il livello di piagnisteo e capriccio è preoccupante sintomo di immaturità e incapacità di leggere e interpretare il mondo. Il virus non sparisce perché siamo stufi, il pensiero magico non funziona (ed è normale tra i due e i cinque anni, nella fase dello sviluppo psicologico eloquentemente detta egocentrica).

D’altra parte, le autorità statali e locali non hanno certo aiutato l’elaborazione e la gestione matura del trauma pandemico, tra promesse impossibili da mantenere, regole nette e scarsamente responsabilizzanti, rassicurazioni paternalistiche (pur accettabili nella prima fase della pandemia).

Il problema arriva ora, quando le persone sono insofferenti, assuefatte a contagi e decessi, e invocano la libertà, mentre nessuno sembra intenzionato ad assumersi le correlate responsabilità.

Perché si rispettano le regole?

Non è solo questione di obblighi, ma da lì è più semplice partire. Il tema del rispetto delle regole è un elemento centrale in ogni ordinamento e, più in generale, in ogni comunità. Perché si rispettano le leggi?

Le teorie sono molte e non è detto che ne valga solo una. Ci sono gli approcci coercitivi, con l’idea che una regola sia tale solo se assistita da sanzione, ci sono i meccanismi premiali, che mirano a orientare i comportamenti tramite incentivi, ci sono le raccomandazioni, ci sono le politiche attive, ci sono le società basate sulla sorveglianza. Eccetera.

A prescindere da teorie e approcci, esiste un generale dovere sociale di conformarsi alle regole, intese come norme che garantiscono il vivere civile, specie quando la loro osservanza è garantita da tutti o quasi. In questo contesto, si pongono anche i diritti, cioè quelle posizioni individuali o collettive, che ciascuno deve poter esercitare.

Ma il rapporto tra diritti e doveri non è diretto, ma tuttalpiù funzionale.

Ad esempio, il dovere di pagare le tasse, di concorrere cioè alle spese pubbliche in base alla propria capacità contributiva, risponde all’esigenza pubblica di finanziarsi per poter erogare servizi a garanzia dei diritti sociali. Tuttavia, presentandosi a un pronto soccorso, non si è tenuti a dimostrare di aver correttamente compilato la dichiarazione dei redditi e di essere in regola fiscalmente: si viene curati perché si ha diritto alla salute e questo diritto è slegato dal dovere, che però serve affinché i diritti siano garantiti a tutti.

Il meccanismo è complesso ed è proprio in questa complessità, che richiede una partecipazione del singolo alla vita della comunità e un impegno della collettività a garanzia dell’individuo, che si qualifica il profondo valore dei diritti sociali, che sono validi quando sono assicurati a ciascuno non in base alla propria capacità di ottenerli, ma automaticamente, senza dover dire grazie a nessuno. Semplicemente, un diritto spetta a tutti e tutti devono poterlo esercitare.

ll certificato verde e l’equivoco tra dovere, prezzo e diritto

Ora, qual è il problema del green pass? La questione è concettuale, prima ancora che pratica.

Ottenere una certificazione che dà accesso a prestazioni e servizi (come finora in Italia), ma potenzialmente a diritti (come in Francia), risponde a una concezione commerciale del rapporto tra autorità e individuo. Questo approccio è infatti mutuato dal contesto europeo e dunque derivante dalla necessità di garantire una delle libertà (economiche) fondamentali, ossia la libera circolazione dei lavoratori. Il problema, però, è che si tratta di una concezione individualistica e, nel garantire il diritto alla salute, l’individualismo non funziona.

La persona che non può vaccinarsi (e che si spera, almeno sul piano pratico, verrà contemplata in maniera non discriminatoria dall’eventuale regolazione dei green pass) deve poter contare sulla sua comunità per ottenere il suo diritto alla salute. D’altra parte, il dovere di ciascuno che può vaccinarsi a garantire anche a chi non ha tale possibilità il diritto alla salute è, per l’appunto, un dovere morale (pur se non un obbligo giuridico), non una libera scelta cui corrisponde, come premio, la possibilità di partecipare a eventi aperti al pubblico, di andare al ristorante o di viaggiare in aereo.

Lo Stato deve garantire ai più fragili il diritto alla salute e, ai vaccinati, la sicurezza del vaccino. Se tale sicurezza manca (e non può che mancare, perché nulla è certo, figuriamoci vaccini sviluppati nel giro di due anni, e per i quali dunque è temporalmente impedita una analisi preventiva a lungo termine), è necessario un confronto franco, aperto, maturo con i cittadini, un confronto basato non sul paternalismo, né sulla punizione, né sull’illusione di libertà. Il vaccino è, al momento, la soluzione più sicura a nostra disposizione, tutela chi si vaccina e l’umanità tutta, comprese le persone più fragili che, come collettività e come comunità, abbiamo il dovere di proteggere.

Con la certificazione verde, invece, si conferma l’approccio liberal, un approccio che -è il caso di ricordarlo- non ha mai tutelato i più deboli se non tramite il sistema assistenzialistico della beneficenza, che tuttavia perpetua rapporti di dominio e cristallizza le disuguaglianze attraverso elargizioni benevole.

Attribuendo un pass dopo la vaccinazione (o dopo l’avvenuta guarigione o in caso di test), il diritto-dovere di essere protetti e proteggere si trasforma in libertà, in quanto tale nella piena disponibilità di coloro che possono permettersela. Gli Stati abdicano al dovere di garantire a tutti il diritto alla salute, lasciando sullo sfondo i fragili non vaccinabili e, nel contempo, evitando le responsabilità conseguenti alla previsione dell’obbligo vaccinale. Dall’altra parte, si illudono i cittadini rispetto alle libertà, come se un QR code potesse far tornare il mondo a prima del covid.

E, soprattutto, ancora una volta, si sostituisce il complesso rapporto tra diritti e doveri con il semplicistico rapporto diretto tra corrispettivo e prestazione, tra prezzo e merce, con un paradigma commerciale e individualista che non può garantire il benessere, di ciascuno come di tutti, della comunità.

 

 

 

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