[Ho scritto questo post su Facebook il 10 aprile 2015, lo ripropongo oggi, diciannove anni dopo il giorno in cui Carlo Giuliani rimase per sempre ragazzo. L’immagine in evidenza è di Zerocalcare, non detengo i diritti però se non altro sono sincera.]
Credo nell’informazione, nell’approfondimento che fa cambiare idea, nell’umiltà di chi non giudica prima di conoscere. Forse per questo il sangue mi ribolle quando sento condanne nette e senza appello contro Carlo Giuliani: perché è stato il suo nome, più di altri, a segnare l’inizio della mia attenzione a quei giorni, anni dopo i fatti di Genova. Ma la parentesi biografica non è il motivo per cui ho intenzione di scrivere: vorrei solo che queste mie parole siano occasione perché chi etichetta superficialmente si confronti con i fatti per cambiare, o mantenere con più consapevolezza, la propria opinione.
Le premesse
Carlo Giuliani è morto il 20 luglio 2001.
E il 20 luglio 2001 è arrivato dopo il 19, il 18, il 17.
È arrivato dopo la decisione di tenere il G8 a Genova, città bifronte, di mare e di montagna, con i vicoli stretti. È arrivata dopo Napoli e quel 17 marzo 2001 di abusi perpetrati proprio nei confronti del movimento no-global che avrebbe sfilato contro il summit estivo del G8.
È arrivato dopo settimane di terrore politico e giornalistico, con notizie che parlavano di manifestanti che si sarebbero preparati allo scontro, con agrumi ripieni di lamette, gavettoni riempiti di sangue infetto, droni caricati di esplosivo con cui colpire la polizia.
È arrivato dopo settimane in cui servizi segreti valutavano le possibili infiltrazioni di violenti all’interno delle iniziative no-global; e in qualche caso, ci azzeccarono anche: il blocco nero si ritrovò in piazza Paolo da Novi, come segnalato in due relazioni riservate del Sisde inviate alla Digos genovese, senza che nessuno provasse in alcun modo a fermarne i componenti o arginarne i movimenti.
Il giorno del giudizio
Il 20 luglio 2001 è arrivato, ma ancora non sono le 17:27.
È mattino e ci sono i black block. Sono trecento. Prima sono tutti insieme, poi si disperdono, in gruppi di cinquanta o di cento.
E ci sono le Tute Bianche e miriadi di associazioni, perlopiù nonviolente e comunque tutte pacifiche. Alcuni indossano simboliche armature di gommapiuma, per ironizzare contro un gruppo di politici che possono militarizzare una città. Ma a un esercito per finta, quel giorno, si contrappongono plotoni di uomini che li prendono sul serio: poliziotti e carabinieri aizzati dalla paura per i terroristi, celerini senza scrupoli e ventenni inesperti, fin dal mattino solcano le strade di Genova con cingolati neri, quasi fossero carrarmati.
Sono le 14, le 14.15, quando un gruppo di carabinieri, chiamato a fronteggiare i black block, si perde. Trecento, anche loro. Un numero ricorrente, quasi fossero gli arditi delle Termopili, eroicamente asserragliati contro i nemici.
Sbagliano strada: a Bologna “non si perde neanche un bambino”, ma Genova è composta di “labirintici vecchi carrugi”. E invece che contro lo sparuto gruppo di vandali in nero, si ritrovano davanti alla testa del corteo organizzato: chiamati per un saccheggio, si trovano di fronte striscioni e ragazzi festanti, ma non si pongono domande. Un attimo di sosta e poi la carica, che respinge la folla per qualche centinaio di metri. C’è gas CS: pizzica la gola, provoca invano spasmi di vomito, gli occhi bruciano e si riempiono di lacrime. E ci sono nuovi manganelli in sperimentazione, i tonfa, bastoni di metallo, ricoperti da uno strato di gomma. E non ci sono luoghi per scappare, perché le vie di fuga sono occupate dagli uomini in divisa.
Quasi in contemporanea, anche la Rete Lilliput, e Legambiente, e associazioni di volontariato vengono attaccate: i black block hanno cercato di infiltrarsi tra loro in piazza Manin, senza successo, grazie a un cordone degli stessi manifestanti. I vandali si dileguano, ma la reazione poliziesca colpisce con violenza il gruppo pacifico, ferendone i partecipanti e arrestandone due, con l’accusa di aggressione alla polizia, che si rivelerà inesistente a processo.
Azioni, reazioni: la storia prende la rincorsa
Tu, ora, che hai cominciato a leggere pensando a Carlo Giuliani, ti starai chiedendo che cosa c’entri lui, quel ragazzo che tu ricordi in canottiera, passamontagna ed estintore. Forse non sai che sotto i pantaloni della tuta aveva anche il costume: perché aveva ventitré anni, stava in una Genova blindata, con grate altissime come muri saldati alle case per proteggere la zona rossa, e il mare è meglio di una città in quella condizione. Ma questa è un’altra storia, la sua storia, di ragazzo che scriveva poesie, uno di quelli non facili, con una sensibilità profonda che può essere una fortuna come una disgrazia. E la sua storia forse non ti interessa.
Ma se per arrivare a Piazza Alimonda, alle 17.27 del 20 luglio 2001 sono partita da Napoli è perché spesso la narrazione, come gli avvenimenti e come la storia, ha bisogno di prendere la rincorsa: perché raramente i fatti sono isolate follie del momento e in genere le reazioni sono risposte a reazioni che erano risposte ad altre azioni.
Però si deve tornare a Genova, ora. A quel pomeriggio di tensione, di paura e di panico.
Di carabinieri che dopo il massacro in via Tolemaide si perdono per le strade. Un defender fa una manovra sbagliata, e quello dietro si blocca. In piazza Alimonda. Non è isolato: il plotone di carabinieri è schierato di lato, tanto che lo sparuto gruppo di manifestanti attacca soprattutto loro.
La foto schiacciata
Ma tu forse ora stai ripensando alla foto ormai nota: le spalle di un ragazzo in canottiera con un estintore levato sopra la testa, a pochi centimetri dal vetro della jeep bloccata. E difficilmente sai che la foto è ritoccata: un’immagine senza didascalia su cui si basano certezze granitiche. In origine, serviva a dimostrare che, dentro alla macchina, la pistola era puntata ad altezza uomo, altezza zigomo di ragazzo, distante più di quattro metri con un estintore vuoto tra le mani e invece ha finito per essere diffusa con l’effetto opposto: di giustificazione per quella morte. Legittima difesa. Ragazzo contro ragazzo, umano contro umano, estintore contro pistola, Carlo Giuliani contro Mario Placanica.
Ma quella foto è servita, per stabilire almeno un po’ di verità. E cioè che Carlo Giuliani è morto dopo un colpo di pistola in faccia, con i bronchi pieni di sangue. E quel defender, che ti hanno raccontato essere bloccato, dopo il colpo ha fatto manovra: ha ingranato la retro e poi la prima, investendo e rinvestendo il ragazzo ferito.
Eppure si è cercato di negare quel proiettile.
Per primo, il vicequestore Lauro: “Bastardo! Lo hai ucciso tu, lo hai ucciso! Bastardo! Tu l’hai ucciso, col tuo sasso, pezzo di merda! Col tuo sasso l’hai ucciso! Prendetelo!” urlava contro un manifestante, inseguendolo. Ma non bastavano le parole. E allora forse qualcuno si abbassa e colpisce la testa del ragazzo con un sasso.
Ma ci sono i video, il colpo si sente, non si può nascondere. E allora si ammette che sì, si è sparato, ma in aria e una pietra dei manifestanti ne ha deviato la traiettoria.
È per contrastare quest’insieme di menzogne che serve quella foto appiattita: per mostrare la canna della pistola, puntata, orizzontale, diritta.
La tragedia è compiuta, inizia il camouflage
Se la tragedia è compiuta, inizia il camouflage. Non passa nemmeno un minuto. Eligio Paoni si avvicina e scatta foto del corpo: viene preso, malmenato, trascinato per la nuca sopra Carlo. La Nikon viene distrutta, la Leica gli è strappata di mano e il rullino reso inutilizzabile. Un fotografo freelance francese, Bruno Abile, dichiara che dei carabinieri hanno preso a calci il ragazzo a terra, morto o forse ancora agonizzante. La piazza è svuotata dei suoi componenti e prima dell’arrivo dei soccorsi avviene la farsa dell’inseguimento per il sasso: il corpo di Carlo Giuliani viene circondato da un cordone impassibile di uomini in divisa.
La mattina dopo, dalle registrazioni emerge un dialogo tra due agenti, a freddo: “Queste zecche del cazzo” dice lui, “Speriamo che muoiano tutti. Intanto uno già… uno a zero per noi: yee” risponde lei, con il tono allegro, come non stesse parlando di una vita.
Chi ha ucciso Carlo Giuliani?
Ora, tu resta pure della tua idea. E, scusa, se ti ho impegnato così a lungo nella lettura, ma c’era bisogno di chiarire che Carlo Giuliani non è stato ucciso da Mario Placanica.
O, almeno, non solo.
Carlo Giuliani è stato ucciso da chi ha seminato panico tra le forze dell’ordine, caricando a molla i più giovani e aizzando gli animi dei più ideologicizzati (leggi: fascisti) contro le zecche e i fricchettoni. È stato ucciso da chi alle 10 del mattino del 20 luglio 2001 non ha fermato, identificato o arginato i black block che indisturbati (e previsti!) devastavano piazza Paolo da Novi.
È stato ucciso da chi ha portato a Genova migliaia di carabinieri e poliziotti, senza formarli adeguatamente, senza che sapessero controllare la tensione, né orientarsi nella città: moderni soldati in Grecia o in Russia, allo sbaraglio contro un nemico tanto sconosciuto quanto dipinto come temibile. È stato ucciso nel panico delle suore, dei militanti comunisti e delle tute bianche coperte di sangue.
Prima che in Piazza Alimonda, Carlo Giuliani è stato ucciso in via Tolemaide, in via Assarotti e in piazza Manin.
E dopo il colpo allo zigomo, è stato ucciso dal defender che faceva manovra. È morto nelle menzogne del vicequestore Lauro, nel sasso accusato di assassinio, nell’inseguimento inscenato. È stato ucciso nel fotografo malmenato, nel rullino distrutto, nel cordone di polizia posto per occultamento, non per pietà.
E muore ancora, nel luogo comune che si perpetua.
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