Sono le 17.56 del primo lunedì di maggio e ho capito che è arrivato il momento di scrivere un pensiero che ho in testa da diverse settimane.
Una premessa: no, non mi sto lamentando
Sono una persona che cerca di cogliere il meglio da quel che accade. Non un’ottimista, non una da discorsi motivazionali e deresponsabilizzanti verso la società (del tipo Volere è potere, mm, no, non direi).
Ma c’è una citazione che anni fa avevo scritto su un post-it, è di Jean-Paul Sartre, o almeno credo, perché la ricerca bibliografica non l’ho fatta. Comunque dice:
L’importante non è quel che si fa di noi, ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi.
Mi pare una buona via di mezzo tra l’entusiasmo motivazionale e il vittimismo sociale. Con questo presupposto filosofico, sono a casa dal 27 febbraio 2020, fin dai primi giorni di emergenza coronavirus.
Deontologico e ontologico (ovvero, di propositi infranti)
I primi giorni sono stati produttivi: dovevo consegnare un testo, scrivere qualche articolo, preparare approfondimenti di lavoro. Ho trovato anche il tempo di fare un po’ di esercizio fisico, rigorosamente in casa o in giardino. Scontavo un po’ di stanchezza arretrata e, seguendo il consiglio che il mio oculista mi propone da anni (invano), ho dormito ogni notte almeno otto ore. Un successo, insomma.
Eppure, le stesse attività (giusta quantità di sonno a parte), le svolgevo anche prima, dedicando però diverse ore della settimana anche all’università, al teatro, al calcio, e dovendo calcolare anche tempo per andare da un impegno all’altro.
Solo un problema di organizzazione, mi dicevo. Più tempo si ha, più tempo si perde: gli impegni, specie quelli intellettuali o creativi, sono come l’acqua, si espandono o si restringono a seconda della disponibilità.
Quindi ho fatto una to do list. Ho assunto degli impegni con me stessa. Ho continuato a usare l’agenda, mi sono data delle scadenze, degli orari fissi. Ma una parte di me aveva ormai deciso di boicottare ogni sforzo di autodisciplina.
Quanti libri avrei potuto leggere? Di quanti paragrafi sarei potuta avanzare nella stesura della tesi? Quanti progetti avrei potuto strutturare meglio? Quante volte avrei potuto scrivere su questo blog?
The spotless mind
Dall’inizio del lockdown avrei voluto scrivere quattro post. Cinque, se si conta questo, che sto scrivendo sforzandomi come raramente mi è accaduto.
Ho i miei trucchi, per superare la pagina bianca. Non funzionano (mi manca di provare soltanto la camminata senza meta, per ovvi motivi). Quando va bene e riesco a scrivere qualcosa, arrivo a un punto del ragionamento in cui mi perdo, mi sembra che il pensiero che sembrava meritevole di approfondimento sia scialbo, banale, sterile.
Il tutto mi mette ansia: ero arrivata a un equilibrio che mi permetteva di lavorare con una certa costanza su più ambiti, e questo blocco arriva in un momento in cui mi ero illusa di avere un po’ più chiaro il mio posto nel mondo.
Lasciando da parte ansia e illusioni, questo lockdown ha portato una persona come me, normalmente resiliente e capace di apprendere dalle difficoltà, a sprecare tempo e opportunità.
Magari è solo un problema mio: mi auguro che il resto della società sia stato in grado di migliorarsi. Questo post, però, era pensato a metà marzo e da lì rimandato, e rimandato, fino a oggi, quando, dopo l’ennesima giornata buttata via, mi sforzo di portare a termine almeno un proposito.
Nessuno si salva da solo (stra-cit.)
Allora, io ero una persona fortunata, che ha avuto la possibilità e la responsabilità di non affollare i mezzi pubblici prima che fossero richieste autocertificazioni. Avevo (e ho ancora) una casa in cui vivere, un (piccolo) giardino in cui ricordarmi quanto sia poco capace di palleggiare, una connessione internet, una famiglia che amo e che mi ama (l’elenco non è in ordine di priorità).
Ma se, come speravo, fossi riuscita a gestire il tempo con l’efficienza classica, sfruttando i tempi altrimenti impiegati fuori casa per migliorarmi, non sarebbe stato (solo) merito mio. Devo ringraziare i miei genitori, per il benessere capitatoci grazie soprattutto ai loro sacrifici, e la sorte, per non averci posto innanzi ostacoli insormontabili.
Se avessi messo a frutto il periodo di clausura, la calma obbligata sarebbe comunque stata semplicemente un’occasione: la riuscita del percorso di miglioramento personale sarebbe dipesa da strumenti culturali che, per sorte, educazione e (poco) merito, già ho.
Perché il distanziamento fisico di questo periodo era necessario per limitare le occasioni di contagio, ma rinchiudere qualcuno non significa educarlo. E l’educazione non era, in effetti, lo scopo del lockdown. È però lo scopo per il quale decine di migliaia di persone sono rinchiuse, a prescindere dalla pandemia.
È il momento di ripensare il carcere
In Italia, sono quasi 61mila le persone detenute in carcere. La capienza degli istituti ne prevederebbe almeno 10mila in meno.
Se pure non ci fosse sovraffollamento, gli spazi non sono quelli di una casa: nonostante il vittimismo con cui molti descrivono questo periodo, il distanziamento fisico che ci è stato richiesto per limitare il contagio non ci rende carcerati. Io posso guardare film che scelgo io, posso mandare messaggi e fare videochiamate, posso prendere un po’ d’aria all’ora che più mi aggrada. Eccetera.
Ma loro, obbietterà qualcuno, hanno commesso reati. Quindi se la meritano, se la sono cercata, la privazione di libertà.
Lasciamo da parte il fatto che molti siano detenuti in attesa di giudizio, anche se questo significa che più di una persona su tre, in carcere, non sia colpevole, o almeno non lo sia ancora, agli occhi della legge.
Anche nel caso di condannati, tuttavia, la privazione della libertà come punizione, pura e semplice, come retribuzione rispetto a un reato commesso, è una concezione estranea agli obiettivi che ci siamo posti al momento di fondazione della nostra Repubblica democratica. Si era detto, al tempo, e lo si era solennemente scritto nella Costituzione, all’articolo 27, che:
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Un detenuto ha strumenti culturali per migliorare?
Le pene, oggi, consistono ancora per la maggior parte nella reclusione. Il concetto laico di colpevolezza sembra quasi confondersi con quello religioso di peccato, da espiare con penitenza e sacrificio. Nella privazione di libertà, ben più gravosa di quella che noialtri stiamo vivendo per ragioni sanitarie, il detenuto dovrebbe essere rieducato, dovrebbe incontrare i valori della società che ha calpestato con il suo crimine. Più spesso resta parcheggiato: ha strumenti culturali per migliorare sé stesso?
La cultura, certo, non coincide con l’istruzione, ma i dati sulla popolazione carceraria (o, meglio, su una sua parte) sono un punto di partenza per cercare di capire. Il campione riguarda 34mila detenuti. I laureati sono poco più di settecento, contro i quasi novecento privi di titoli di studio. Quelli arrivati al diploma sono meno di cinquemila, più di seimila hanno fatto solo le elementari. E poi ci sono i quasi ventimila con la licenza media. Oltre a loro, in carcere c’è anche chi non sa leggere né scrivere: gli analfabeti (sì, analfabeti, nel 2020) sono più di mille.
I banditi non siano banditi
È una situazione che, con qualche differenza, si legge anche altrove, nella storia d’Italia. Era il 1956 quando Danilo Dolci, al processo per lo sciopero alla rovescia, raccontava della situazione di Partinico e Trappeto. Alla popolazione lo Stato aveva dato più repressione che istruzione.
I trecentocinquanta ’fuorilegge’ della zona avevano avuto dallo Stato italiano, per educarli, solo seicentocinquanta anni di scuola, in complesso, ed oltre tremila anni di galera.
Molti detenuti certo trovano in carcere occasioni di riscatto sociale: laboratori di scrittura, di cucina, di teatro. L’impegno di operatori e associazioni è lodevole e può salvare tanti dal crimine in cui sono inseriti.
Resta il problema del loro essere banditi, una parola quasi desueta che però rende ancora bene la complessità del loro status: l’aver commesso un crimine e, con esso, essere posti al margine della società, anzi, messi direttamente al bando. Resta da capire se l’esclusione sia precedente o successiva alla rottura del patto sociale.
Insomma, che fare?
Il discorso è complesso. È indubbio che la funzione rieducativa debba contemperarsi all’esigenza di proteggere il resto della comunità, tenendo conto che l’approccio repressivo non coincide con la sicurezza per la società.
Un modo di mettere a frutto questa nostra esperienza di blanda reclusione potrebbe essere iniziare a pensare alla galera come a un periodo afflittivo per la vita di chiunque. Ragionare sull’acidità che abbiamo, chi più, chi meno, sviluppato nei confronti di chi vive con noi, di chi passa davanti alla nostra finestra, di chi ha fatto scelte sbagliate. Al di là di spot retorici tutti uguali su quanto siamo bravi e forti e affettuosi, ci sentiamo davvero migliori, siamo davvero migliori, dopo (o, meglio, durante) un’esperienza del genere?
È necessaria una riflessione, laica, aperta, sulla detenzione come strumento di risposta ai reati. Anni fa mi sono incuriosita (e una parte di Potere forte è dedicato a questo) sulla giustizia riparativa, che propone il superamento del concetto retributivo di pena, concentrandosi sul rapporto ferito tra la vittima del reato, la società e il reo, che ha rotto quelle relazioni. È una modalità più complessa, più dispendiosa, che però ha il pregio di non limitarsi a rinchiudere persone sperando che escano migliori da un’esperienza simile. Come fosse una magia.
Io, in quest’aura silenziosa spezzata solo da qualche ambulanza, che mi pare, forse per interiore speranza, più rara di qualche settimana fa, non penso di essere migliorata. Anzi, temo di esser peggiorata. Mi inquieta l’idea che possa essere lo stesso per decine di migliaia di persone dietro le sbarre. Per loro, per gli altri, per tutti.
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